Tana, o della gioia

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La mia gatta, Sofia, da tempo in leasing dal secondogenito Cosimo, è scomparsa per mezza giornata. Cercata ovunque, si era nascosta in una scatola da scarpe, pressoché invisibile.

Alle mie nipoti, Matilde e Camilla, anni fa fu regalata una tenda, che tenevano in camera dormendovi e leggendo, in pieno spregio del letto e del tavolo.

Da fanciullo mi appollaiavo in un mobile a 4 piani, ciascuno chiudibile con una tendina. Mi sentivo Robinson Crusoe.

La vecchia foto qui riprodotta, che traggo dall’archivio del Telegraph di Londra, mostra un’identica realtà inglese degli anni ’30 del Novecento: un armadio a 4 scomparti, l’ultimo ancora occupato dalla biancheria di casa, gli altri tre divenuti il dormitorio delle tre sorelle nei loro loculi felici.

Cosa ci dice tutto ciò? Che noi umani, sotto ogni cielo, amiamo avere anche piccoli spazi per noi, preferibilmente distinti e protetti, riservati e magari segreti.

Sono – come per certi animali – la tana o il nido: là dove ci si può sentire in un mini-spazio proprio e inaccessibile, riposarsi o giocare, leggere o dormire, immaginare e fantasticare.

È – questo – un bisogno diffuso e profondo, da non sottovalutare: esso ha a che fare, infatti, coi percorsi di individuazione, di riconoscimento del proprio Io, di messa a punto dell’identità personale.

Talora, poi, specie in momenti difficili o di passaggio, rintanarsi (alla lettera) è un’ottima tecnica per difendersi e ripensarsi, per ridivenire consonanti con sé stessi. Magari non facendosi ritrovare per un po’, come la gatta Sofia (che fa rima con autonomia).

 

Credits: Keystone features/Getty images

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