Un suicidio

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K., una mia ex-studentessa universitaria, si è uccisa gettandosi da un’alta rupe sull’oceano atlantico. È avvenuto due anni fa ma l’ho saputo solo ora da una sua compagna dello stesso corso, emigrata – come lei – in Irlanda.

Ho potuto leggere la lettera d’addio: un testo sobrio, essenziale, senza richieste di perdono e senza accuse. K., prima di gettarsi, spiega il suo gesto, a lungo meditato, deciso essendo “sana di corpo e di spirito”, né malata né depressa. Dice che a 42 anni non trova più un senso della sua vita: non ha genitori e figli, ha avuto tre amori “semplicemente finiti”, si è occupata sempre di sostegno a gravi disabili. In questa attività, durata oltre vent’anni, ha visto e condiviso “troppa fatica, troppo dolore, troppa inefficienza burocratica, troppa solitudine”. Ha cercato di riparare i guai del sistema esistenziale, la cattiveria della gente, la finta pietà cristiana, l’impotenza dei famigliari e la loro ansia per il ‘dopo di noi’. Ora, prima del grande passo, si sente “svuotata”, incapace di proseguire oltre. Cita lei stessa il ‘burn out’, lo stress potente che spesso stende chi è a contatto col dolore o con la morte. Capisce di aver bisogno di un supporto psicologico. Ma si dice “mortalmente stanca” e desiderosa di non essere di disturbo. E decide lucidamente di sopprimersi.

La ricordo come una ragazza carina, un po’ schiva, appassionata della sociologia: mi pareva che camminasse nella vita con passo lieve, quasi sfiorando la terra, forse un po’ triste, certo riservata. Non ce l’ha fatta, ha aiutato tante persone ma non è stata aiutata. Che il mare le sia lieve.

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