Canottaggio e bombe

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Ci fu un tempo in cui il canottaggio italiano faceva schifo nel mondo, finendo sempre in coda alle Olimpiadi. Si racconta che, stufo di questa sistematica debacle, il presidente del Coni, Onesti, mandò un suo osservatore in Gran Bretagna per capire qual era il trucco segreto che faceva dei canoisti inglesi dei maestri.

L’osservatore, che si era nascosto tra le frasche per spiare il classico scontro tra le squadre delle università di Cambridge e di Oxford, tornò e riferì al gran capo (andreottiano di ferro): “Presidente, ho scoperto il trucco: lì da loro solo uno urla e tutti gli altri vogano”. Deficit culturale italiota? Inefficiente dispersività mediterranea? Superiorità dell’etica protestante?

Qualcuno potrebbe citare la testimonianza di Ruggero Zangrandi sulle ore passate nei rifugi antiaerei durante i bombardamenti anglo-americani nella seconda guerra mondiale: “A Napoli si affollavano con calma nei rifugi condominiali, portando un caffè e dicendo ‘Scusate il ritardo’. Durante la caduta delle bombe tutti urlavano. Poi, finito il terrore, con la vita ancora una volta salva, se ne uscivano quasi sereni per preparare e mangiare la pasta. A Milano, invece, pochi gridavano durante il bombardamento e, quando tornavano fuori, erano pallidi come i morti, rosi da un’angoscia di cui non si sarebbero mai liberati sino alla decisione di sfollare in campagna”. E allora, meglio l’infelice razionalità asburgica o la capacità dei ‘terroni’ di sputar fuori la paura? O un mix, variante a seconda dei casi?

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