Consola, consòna

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Compassione è diventato un termine equivoco. A volte è usato con sfumature negative: “è un cretino, mi fa compassione”, “suona così male da far compassione”, oppure – con senso di superiorità – “lo compatisco, non ha combinato niente nella vita”. In questi casi si deplorano e si disprezzano gli individui incapaci, inetti, incompetenti, ridicoli, biasimevoli.

Poi compassione è talora sinonimo di pietà, con valore ambivalente, poiché essa, nel vissuto di molti, ha assunto un significato ‘pietistico’, da vetero-cristiani che a volte che non hanno in vera simpatia i disgraziati ma sanno di dover far loro del bene.

Infine, compassione può avere una valenza positiva, legata alla sua origine latina: cum-patire, soffrire insieme, dunque partecipare da pari a pari alle fatiche, ai dolori, ai limiti, alla disperazione altrui. Non solo farsene carico, espressione che evoca un peso, una soma: no, proprio consonare, sentir risuonare dentro di sé le difficoltà dell’Altro.

È quest’ultima accezione della parola che abbiamo urgenza di rilanciare, poiché l’attuale impoverimento delle coscienze e delle passioni sta indebolendo e deridendo come ‘buonismo’ il genuino soffrire per le sofferenze altrui.

Alcuni definiscono tale imbarbarimento come declino dell’empatia. Altri sottolineano il ridurre chi è in grave disagio a mentitore, esagerato, interessato, colluso. Molti non hanno più (o si vergognano di riconoscere) lo stringimento di cuore che la sofferenza altrui, la miseria, la solitudine coatta determinano nelle donne e degli uomini di questo pianeta.

Eppure, il cuore che si stringe, quasi automaticamente (“al cuor non si comanda”), è ciò che ci fa umani. Lo ha scritto assai bene il cardinal Ravasi sul Domenicale de Il Sole 24 ore di domenica 27 aprile.

Perché ho scritto tutto ciò? Perché della consonanza con sé e con gli altri è mi occupo da vari anni con le colleghe di Sòno.

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