Nel mio ultimo blog ho raccontato la storia della mia amica Elena, da poco suicidatasi perché la vita le appariva piena.
Subito dopo ho ricevuto una sua lettera, inviatami due-tre giorni prima dell’atto finale.
Non chiede scusa, non spiega alcunché. Mi saluta e dice unicamente che c’è chi non ce la fa più perché solo, disperato, privo di affetto o di una motivazione a vivere. E poi c’è chi – come lei – esce silenziosa dall’esistenza poiché sente di “aver riempito il bicchiere sino all’orlo”: “nel mio non ci sta più nulla, aggiungendo altra acqua non ne berrei di più, bagnerei solo il tavolo o il pavimento”.
Dice che capirò. Mi chiedo se sono in grado di farlo.
Se avessi potuto parlarle prima, credo che avrei contrastato la metafora del bicchiere: la vita non riempie mai un contenitore rigido ma lo allarga a piacimento, dato che non ha un limite, si può sempre estendere con nuove esperienze, nuovi progetti, nuovi amori, nuovi sogni.
Elena – suppongo – mi avrebbe risposto che no, si può decidere di darsi la morte per sazietà, per un bilancio positivo ma finito, per (troppa?) pienezza.
La ricordo viva, vitale, vivace. E continuo a discutere con lei, come se fosse qui. Non mi ha convinto, non mi convince, ma rispetto la sua scelta. E con ciò – credo – ne onoro la memoria.