Umani, non robot

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Guardate questa foto scattata in Inghilterra nei primi anni ’50 del Novecento. Mostra il gioco del salto con scavalcamento di un bambino da parte di un altro. Il tutto in gruppo (sullo sfondo si vedono altri ragazzini in fila e in attesa) e in strada (giravano poche auto nella Gran Bretagna laburista del lungo dopoguerra, contenente i consumi per favorire la ricostruzione e la nascita del Welfare State).

Il messaggio di questa immagine è chiaro: per crescere ed essere felici basta poco. Per giocare non è necessario spendere e avere dei giochi: basta avere degli amici e ripetere esercizi eterni, sviluppare piccole abilità, divertirsi con poco o nulla, a volte usare piccole cose e ricorrere alla fantasia.

Il guaio delle moderne tecnologie, in particolare dei videogiochi, è la necessità per il player di muoversi solo in un ambiente predefinito, ripetitivo, creante dipendenza, coinvolgente solo uno o due dei sei sensi.

Come per ogni attività, un uso moderato può essere valido e gratificante. Ma, se si opera unicamente in un ambito preconfezionato, si finisce col perdere sia il gusto e la capacità dell’immaginazione, sia l’abitudine a ipotizzare una realtà altra. Si rafforza così il neo-schiavismo psico-culturale, che rende noi umani semi-robot servi del potere, fungibili, castrati di ogni originalità.

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