“A un certo punto vengo nominato vicedirettore della Fondazione Agnelli. Mi trasferisco a Torino. Sulle prime il tutto sembra serio, dignitoso, interessante, politicamente non troppo strumentale. Conosco belle teste, all’interno e nel mondo accademico, che mi trattano con rispetto anche perché ho in mano i cordoni della borsa. All’inizio l’unico neo ha a che fare con l’aspetto umano: la gente è cortese ma nessuno ti invita a casa o propone di andare insieme al cinema o in pizzeria. Eppure non sono più grasso e triste; non ho una partner; sono un giovane “dirigente assimilato Fiat”, il che dovrebbe favorirmi tenendo conto del rigido classismo della Torino che dipende dagli Agnelli, dalle loro fabbriche, dal loro indotto, dal quotidiano La Stampa, dalla Juventus, dal comune che in quegli anni si comporta come un ufficio esterno di Mirafiori. Ma la sera sono solo.
Gli unici due che mi accolgono con calore sono Piero e Valeria: lui è un brillante giovane storico, lei – la sua ragazza – una donna rimarchevole per mente e fisico, umanità e cultura, impregnata di etica alla Bobbio. Comincio a frequentare la coppia: tramite loro conosco l’altra Torino, non quella operaia ma quella dell’intellettualità laica intrecciata con molte sinistre. È un mondo raro per lucidità cartesiana, rigore intellettuale, illuminismo severo, influenze variegate (gramsciane e gobettiane, fabiane e valdesi, olivettiane – Ivrea è a un passo – e all’opposto operaiste). Come di consueto, mi divido: di giorno funzionario del neocapitalismo, di sera oppositore liberal, sempre vicino col cuore (non li frequento più) agli operai protagonisti dell’Autunno caldo, con i loro cortei rumorosi. I metalmeccanici passano sotto i palazzi del potere, battono su tamburi, fischiano e gridano: “Agnelli e Pirelli ladri gemelli”. La reazione dell’altra Torino è esemplificata dall’invettiva a una nostra riunione di un manager Fiat: “Che maleducati!” dice, da buon vecchio sabaudo, riducendo la lotta di classe – allora semplice, netta, senza mediazioni – a questione di bon ton (mi viene in mente che i compagni esperti ci avevano insegnato che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”).
Intanto, tra Galante Garrone e Panzeri, tra i circoli di lettura e tanti film, cresce l’amicizia a tre con Valeria e Piero, che diviene a due quando lui parte per il servizio militare, dopo l’addestramento al CAR sbattuto in un inaccessibile luogo del profondo Sud. Lasciando il Piemonte mi affida la sua ragazza, fiducioso. E io mi merito la sua fiducia: la accompagno ovunque, le faccio compagnia, evito che si senta troppo sola. Battiamo a passo a passo la città, geometrica e affascinante; di domenica visitiamo (lei è colta, intensa, appassionante) i borghi delle Langhe e del Monferrato; mi fa scoprire la grande cucina popolare fuori dal circuito delle prime guide; mi insegna a bere vino e a mangiare formaggi, sino ad allora rifiutati non so perché; parliamo di tutto.
A poco a poco scivolo nell’attrazione fatale: ho trovato un’altra donna di qualità, diversa dal mio primo amore ma ugualmente coinvolgente. Ma non glielo dico: per paura d’un rifiuto, per terrore di perder anche la sua amicizia, per correttezza nei confronti del povero Piero, infelicemente recluso nella sua caserma lontana. Lei, d’altra parte, non dà alcun segno di disponibilità al di là dell’amicizia. Alla fine decido di gettare la maschera e di chiederle non solo di amarci ma di sposarmi: non ho dubbi sul suo poter essere la donna della vita e poi – da venditore – ho imparato che “bisogna stupire e comunque chiedere moltissimo per portare a casa qualcosa”. Le chiedo di venire il giorno dopo a trovarmi al Pino perché devo dirle una cosa. Accetta. Mi preparo con cura: ripeto più volte il discorso, mi lavo per bene, indosso il vestito migliore, metto qualche goccia dell’acqua di colonia che mi ha regalato a Natale, mi sciacquo la bocca col Listerine. Sono pronto, sereno e determinato. Valeria arriva, le offro un caffè, si siede, mi dice: “Prima che tu mi dica quel che vuoi, ho una notizia incredibile: Piero torna domani, ha funzionato la raccomandazione, seguirà un cieco di guerra” (uno dei pochissimi modi per passare la naja a casa propria). Che fare? Ho un secondo per decidere: una decisione forse cruciale per il mio futuro. Le mie ‘sliding doors’. Opto per la rinuncia, non apro bocca. Mi rallegro per il prossimo arrivo del soldato, sorrido (alla fine mi chiede: “Ma non dovevi dirmi qualcosa?”; “Sì ma non mi ricordo, doveva essere una sciocchezza”). È finita, prima di cominciare. So che avrebbe potuto essere una grande storia e conservo un senso di perdita, di lutto.
Questa vicenda, pure essa banale, ha due finali. Il primo ha inizio subito: dopo una settimana riprendiamo a vederci a tre, poi io cambio lavoro e città, i due si sposano, io anche, ci vediamo qualche volta a quattro. Dopo poco tempo Valeria e Piero si separano: lui scrive un libro importante, si riaccasa, muore giovane di un tumore mal diagnosticato; lei viene a vivere a Milano, ha successo nel lavoro, si unisce a un famoso collega più vecchio di lei, diviene amica di mia moglie, anche se io non la vedo per decenni. Rimasta vedova, organizza ogni tanto delle merende a cui vado senza riconoscere la ragazza che avevo adorato (non per vecchiaia ma perché ogni tanto la vita cambia assai il dentro e il fuori).
Il secondo finale è recente. A una di queste merende vengo invitato in modo insolitamente pressante: Valeria mi prega di non mancare perché la sua vecchia mamma desidera parlarmi. Dopo cinque decenni ritrovo un’ultranovantenne con qualche acciacco ma giovane di testa e di spirito. Mi ringrazia per aver accolto la richiesta di vederci, mi porta in un salottino isolato, mi apostrofa con un “Dobbiamo parlare dei rapporti tra te e mia figlia”. Mi irrigidisco: “Signora, guardi che tra me e Valeria non c’è stato niente di men che corretto: non l’ho toccata – come si diceva una volta – nemmeno con un fiore”. “Ma è proprio questo il guaio, caro Enrico: mio marito buonanima e io abbiamo sempre pensato che tu fossi l’uomo giusto per lei; voglio che tu sappia che quel giorno, quando lei venne a trovarti, tornò a casa disperata e pianse per giorni, perché tu non ti eri proposto”. Ci lasciamo con un abbraccio, sena coinvolgere l’interessata. Vado via sentendomi strano: dunque, Valeria sapeva, col solito intuito femminile. La vita, che a volte fa strani scherzi, trucchi stravaganti, avrebbe potuto essere diversa. Chissà…”
Nei giorni scorsi la mia amica Valeria, valente psicoanalista freudiana, è morta. Desidero ricordarla con questo brano tratto da un mio libro del 2014 edito da Bompiani, intitolato ‘La vita è piena di trucchi’.
Mi sono commossa.
Enrico sei grande! La vita è proprio strana ☺️