Farsi i fatti altrui

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‘Farsi i cazzi propri’ è un’inelegante e volgare espressione, spesso usata nel linguaggio comune.

In apparenza indica il civile non intromettersi nelle vite degli altri, il rispettarne la privacy, il non uscire dai propri confini.

In realtà, essa si basa sull’esaltazione della privatità egoistica, sul rigetto aggressivo delle interferenze di ogni tipo, al fondo su un modello di società ove ognuno ‘corre la sua corsa’ non interessandosi degli altri.

Ma è giusto e utile ‘farsi i cazzi propri’? A mio parere, no. Per quattro motivi.

Il primo è che il non porre attenzione agli altri impoverisce le comunità, che tendono a disgregarsi per la somma delle chiusure individuali.

Il secondo ha a che fare con l’aiuto reciproco. Quante volte abbiamo sentito in tv gente che diceva: “sì, da anni sentivo urla e lamentele nell’appartamento accanto al mio, ma non ho fatto niente, non erano fatti miei”. E quante violenze domestiche, specie sulle donne, si sarebbero potute evitare!

Poi, il girarsi dall’altra parte indebolisce il controllo sociale, cioè il più efficace (e gratuito) strumento per contenere la criminalità, la devianza, la paura, la sofferenza sociale, l’emarginazione.

Infine, l’impicciarsi dei casi altrui – pur a volte molesto – serve a far rispettare le norme utili alla collettività: come si vede in questo periodo con chi non mette la mascherina, sempre con chi sporca le strade o ha comportamenti criminali in auto o in motorino, spesso con chi picchia i bambini, e così via all’infinito.

Nell’insieme, non farsi i fatti propri è un segno di civiltà, anzi un dovere sociale. Di più: è un modo prezioso di esercitare la cittadinanza in modo attivo, aiutando o – se necessario – deplorando e denunciando.

 

 

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